Nel 2013 avrebbe compiuto 100 anni ma non arrivò nemmeno a 50, perché morì saltando su una mina a Thai-Binh, durante la prima guerra d’Indocina, mentre svolgeva il suo lavoro di fotoreporter. Si chiamava Endre Erno Friedmann ed era nato a Budapest nel 1913, però è passato alla storia con il nome di Robert Capa ed è uno dei fotografi più famosi di tutti i tempi.
Dall’Ungheria fu costretto ad emigrare a Berlino a causa delle ristrettezze economiche in cui era caduta la sua famiglia di origini ebraiche e da lì si trasferì a Parigi, dove conobbe quello che lui stesso definì come il più grande amore della sua vita: la fotografa Gerda Taro.
Sembra che sia stata proprio la Taro ad avere avuto l’idea di trasformarlo in Robert Capa, per dargli un alone glamour (il nome Robert infatti suscitava echi hollywoodiani, richiamava alla mente uno dei più famosi divi dell’epoca - Robert Taylor - e Capa aveva invece un’assonanza con il nome del regista Frank Capra).
Insieme alla Taro fotografò la guerra civile spagnola, insieme divennero famosi e il destino li accomunò anche nella morte: lei morì finendo sotto un carro armato mentre fotografava i repubblicani in marcia al ritorno dal fronte di Brunete, lui la seguì qualche anno più tardi, mentre documentava la guerra d’Indocina.
In realtà Gerda fu uno dei grandi amori di Capa, ma il più grande in assoluto fu sicuramente la fotografia. Era una passione che aveva nel sangue, le sue foto lo dimostrano. Non iniziò subito a lavorare come fotografo, prima frequentò una scuola di giornalismo ma poi il destino scelse per lui: in Spagna fece quello che divenne lo scatto di guerra più famoso (e anche più controverso) della storia. Nel 1936 fotografò infatti un miliziano nell’attimo stesso in cui venne colpito a morte. La foto fece il giro del mondo e gli diede la notorietà che gli permise di diventare un fotoreporter accreditato da Life.
Quando la Francia venne invasa dai nazisti lui, ebreo, riparò negli Stati Uniti e lì lavorò come fotoreporter di guerra documentando lo sbarco in Sicilia, poi quello in Normandia. Capa non era un soldato ma passò gran parte della sua vita a documentare, con le sue foto magistrali, ben cinque diversi conflitti mondiali: la guerra civile spagnola, la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale e la prima guerra d’Indocina.
Proprio per la sua frequentazione con la guerra e con il dolore e le immani tragedie che con essa vanno a braccetto, Capa era un amante della vita e della mondanità: conobbe e frequentò scrittori come Hemingway e Steinbeck, attori come Gene Kelly e Ingrid Bergman, registi come John Huston e artisti come Picasso e altri ancora.
Steinbeck, di cui fu particolarmente amico, ha lasciato di Capa una delle testimonianze più incisive. Scrisse infatti: “Capa sapeva cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino”.
A proposito di vicinanza, lo stesso Capa sosteneva che “se le tue fotografie non sono all’altezza, non eri abbastanza vicino”. E lui fu sempre vicino a tutto ciò che documentava: vicino non solo fisicamente, ma anche con il cuore. Era vicino alla morte del miliziano, era nel mezzo del bagno di sangue del primo sbarco in Normandia ed era vicino, troppo vicino, anche nella guerra d’Indocina, dove calpestò la mina fatale.
Capa aveva un istinto innato per cogliere il momento dello scatto, un notevole intuito ma anche una grande profondità d’animo. Nella sua autobiografia “Slightly out of focus” (pubblicata in Italia da Contrasto con il titolo “Leggermente fuori fuoco”), racconta dello sbarco a cui partecipò nel Sud d’Italia (e di cui a Roma Palazzo Braschi fino al 6 gennaio 2014 ospita una mostra che consiglio a chi può di visitare: sono foto straordinarie, che davvero parlano da sole).
Durante questo sbarco Capa raggiunge Napoli e scrive: “ (…) scattare le immagini di una vittoria è come fare le foto di un matrimonio celebrato in chiesa, dieci minuti dopo l’uscita degli sposi. A Napoli la cerimonia era stata brevissima (…) Con le macchine appese al collo, camminai per le strade deserte, dispiaciuto ma al tempo stesso felice di avere una buona scusa per non scattare foto. (…) La stradina che conduceva all’albergo era bloccata da una piccola folla di persone, in silenzio davanti a una scuola. Non era una fila per il cibo, tutti avevano in mano soltanto il cappello. (..) Entrando dentro la scuola, fui subito avvolto da un odore dolciastro di fiori e di morte. Nella stanza c’erano venti piccole bare, fatte alla buona, coperte a malapena dai fiori e che non riuscivano a contenere anche i piedi sporchi di alcuni bambini, già abbastanza adulti da combattere i tedeschi ed esserne uccisi, ma troppo grandi per essere sepolti in casse così piccole. Questi bambini di Napoli avevano rubato armi e proiettili e combattuto i tedeschi per quei giorni durante i quali eravamo rimasti immobilizzati al valico di Chiunzi. I piedi di questi bambini furono il mio autentico benvenuto all’Europa, la terra dove ero nato. Molto più vero dell’eccitata accoglienza gridata dalla folla di persone incontrate lungo la strada e molte delle quali, soltanto un anno prima, avevano urlato “Viva il Duce!”. Mi tolsi il berretto e presi la macchina fotografica. Puntai l’obiettivo sui volti delle donne distrutte dal dolore, che stringevano in mano le foto dei loro bambini morti. Scattai fino al momento in cui le bare furono portate via. Queste foto sono la testimonianza più vera e sincera della vittoria: immagini scattate al semplice funerale di una scuola”.
Ecco, in queste poche righe io credo sia dispiegata tutta la grandezza di Robert Capa, quella grandezza morale che gli permise di dare alla luce gli scatti memorabili che hanno fatto di lui uno dei più grandi foto-giornalisti della nostra storia.
© Monica Cillario per Osservatorio Digitale (Novembre 2013)
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